Diari lastrigiani

Gino Mignolli, Parrocchia di S. Stefano a Calcinaia


Parrocchia di S. Romolo

Nel mezzo alle valli dell’Arno e della Pesa un alto monte a guisa di piramide s’erge su svelto, e stende l’ombra per quella campagna molto fertile e ben colta, che prende il nome dal S. patrono del tempio, che sull’acumine vedesi modestamente eretto.

Da questo monte si presenta in una incantevole maniera subito allo sguardo del dilettante osservatore, la spettacolosa veduta della sontuosissima fabbrica della fiorentina metropoli, disegno del classico genio d’Arnolfo di Lapo, su cui s’innalza maestosa a molta altezza, la gran cupola a sesto acuto del grande architetto Ser Filippo Brunelleschi (dal Cellini appellata la maraviglia delle cose belle) e si vede ancora da qui la quadrilatera, gigantesca, bellissima Torre del celebre Giotto, degna di essere riguardata come una delle primarie maraviglie di Firenze, unitamente alle altre torri di Palazzo Vecchio e dei templi più vasti, belli e rinomati della sullodata città.

Scorgensi pure da quivi tanti e bei paesi all’intorno per vasta periferia, specialmente i ricchi e deliziosi piani e di Ripoli e di S. Salvi e degli altri agri dei contorni di Firenze e specialmente quelli di Prato, Pistoia e d’Empoli .

Sicchè questo alto monte può dirsi in certa maniera la vera specola delle tante e somme maraviglie, di cui la provvida natura ed il genio degli uomini ha saputo decorare e superbamente arricchire la bella Firenze, i suoi circostanti paesi e le altre vicine città.

Sono innumerevoli le tanto belle cose che da questa brillante e magnifica specola ravvisansi e però resta a me impossibile qui annoverarle tutte;
solo mi impegnerò ora a descrivere quelle che rendono alla vista sensibilmente più vago e interessante questo monte elevato dal livello del mare all’acumine del campanile dell’umile suo tempio all’altezza, di quattrocentottantasette braccia, corrispondenti a metri duecentottantatre, come calcolò il celebre padre Giovanni Inghirami delle scuole calasanziane di Firenze.

Da qui ad un cielo azzurro e tutto sereno, nel mattino allo spuntare del sole, quando brillante e maestoso vibra i suoi vermigli raggi sopra i simmetrici ben palcati verdeggianti abeti dei monti della valle Ombrosa, che chiudono le vallate del Casentino, con apposito canocchiale di lunghissima portata con indicibile giocondità si ha subito allo sguardo la svariata bellezza di un vasto ammirabile panorama.

Infatti da questo monte scorgonsi Montegiovi e la catena di quegli alti monti che chiudono la vallata dell’Arno dalla parte di Fiesole, di Cercina, Montemurello e Monte Albano.

Volgendo poi lo sguardo più in là verso Prato, e Pistoia, subito si fa davanti Monte Ferrato, che stende l’ombra sui villaggi di Figline e di altri paesi circostanti alla città di Prato, e vedonsi allora pure, volgendo più in là lo sguardo, le montagne che dividono a confine la fertile e colta Toscana dalla provincia modenese.

In sulla sera d’un giorno tutto lieto e sereno assai più bella veduta si ha pure avanti agli occhi, se osservansi col canocchiale le brulle montagne modenesi e quelle di S. Pellegrino, che costantemente quasi superbe di se biancheggiano di neve in maniera maestosa non solo nella brumale stagione, ma ancora in tutto l’anno, ad eccezione del più affannoso tempo estivo.

Non finisce qui la scena spettacolosa, il vasto dramma delle incantevoli rappresentanze, che la natura offre bella e quasi costante.

Vedesi qui l’alta Verruca sul monte, che la valle dell’Arno chiude presso la classica ed rinomata Pisa, ed in pari tempo osservansi pure che al suo tramonto il sole, quando si stacca con i suoi vermigli raggi dalle alture pisane, che prima indorava con la sua ammirabile luce, va a bagnarsi e nascondersi nei flutti del vastissimo oceano.

Oh!
Maraviglia ineffabile del divino Creatore! Osservasi ancora la parte di S. Miniato al Tedesco, e subito ravvivasi l’alta e scalcinata rocca, avita memoria di quell’illustre città.

Seguitando il giro col cannocchiale e guardando come di volo le alture di Montaione e di Gambassi vedonsi quelle rarità che la prodiga natura loro donò, nonché le antiche belle torri di S. Gimignano.

Da questo luogo vedesi il piramidato alto monte dell’Incontro ed i suoi circostanti poggi.

Nel mezzo ai verdeggianti alberi di tante specie e sotto gli annosi quercioni, apparisce la torre di questo tempio devoto, già santificato dalla memoria del beato Gherardo da Villamagna e di S. Leonardo da Porto Maurizio.

Viva S. Leonordo! che per mezzo del suo devoto padre Andrea da Quarrata ha riaperto questo luogo, già un tempo quasi abbandonato, e l’ha ridotto ora ad un asilo di anime elette.

Chiudesi il corso alla scena maravigliosa, che a cielo sereno offre il monte di S. Romolo, col rimirare i ben chiomati ricchi oliveti e le belle vigne, non che i vari e deliziosi frutteti di Paterno, Terzano, Baroncelli, Vicchio, Candeli, Quarto di Settignano e di Fiesole, che sono la delizia e ricchezza delle fiorentine adiacenze.

Da S. Romolo, per dir così, l’idea dell’infinito apparisce molto più grande e vaga che in altro luogo…

 

* * * * *

 

Nel piazzale i fari accesi delle auto squarciano le tenebre che avanzano.

Vado dietro la Chiesa quasi a rendere omaggio alla piccola campana, il cui argentino suono scandisce, nella vallata, tempi e funzioni dal 1242.

L’impianto romanico in pietra arenaria, sapientemente spronato, è ancor oggi intatto.

Nel ridotto sagrato, due vasche di cotto imprunetino, ornate di robbiane, contengono a fatica un’esplosione di rossi gerani.

Ma dalla canonica profumi e clamori interrompono la mia estasi.

Lì, affacciato, noto i tavoli già occupati anche nella veranda, da poco fatta erigere da Don Norberto come refettorio per ritiri più o meno spirituali di grandi e piccini.

Per fortuna la Pina, con il suo lesto passo, mi ha serbato il posto.

Ma è impossibile sedermi, quante facce riconosco, talvolta con un po’di sforzo, tutte illuminate da smaglianti e genuini sorrisi.

Quanti abbracci, quante pacche sulle spalle, nella generale esultanza.

Scorro in rassegna una vita.

Soltanto il fumo che aleggia sulla pizza mi induce a sedermi. Com’è buona! Finalmente un vino genuino, leggero e rosso che mi ricorda quello di Gino il bersagliere, lo degusto con schietto piacere.

E dimentico per un attimo la mercantile invasione di vini scuri come l’inchiostro, d’innaturale gradazione, tannici oltre maniera, indistinti tra loro che, secondo le loro etichette, sprigionano mille sapori, ... ma non quello dell’uva!

Pure la pasta frolla delle crostate, portate dalle fedeli parrocchiane , è squisita, friabile e ragionevolmente dolce.

Nell’ampia sala chiassosa, ma non confusionaria, i sorrisi dei tanti ospiti, ora satolli, sono ancor più radiosi.

Tra gli astanti é un continuo scambio del posto per ricordare una pletora di momenti lontani ma sempre nitidi.

Su tutti e tutto svetta la splendida figura di Don Norberto, sereno e serafico umile pantocratore, seduto, direi assiso, vicino al camino appoggiato ad un immaginario vincastro col dolce sguardo al suo gregge, adunato nel confortevole ovile, ritornato a vita nuova, così testimonierebbero le targhe che qui non necessitano.

Da tanti anni, otto lustri esattamente, i Lastrigiani godono della sua presenza, della sua vicinanza, della sua amicizia, della sua benedizione, quella di un padre spirituale e non solo, che sfila nelle strade soltanto per tener alto l’ostensorio, sempre vicino a chi soffre, comprensibile con ognuno, ancor più con chi non è uso a farsi il sacro segno.

Quanto mai è meritata la beatitudine di cui oggi si pasce, resiste imperterrito ai bambineschi lanci, abbraccia in piedi i fedeli coetanei.

Solamente il suo carisma per l’acclarata evangelizzazione sospinge tanti neofiti pizzaioli o camerieri, usi alla penna o al computer, alla salita su questo poggio per assolvere volontariamente faticosi impegni assunti, trasformandosi in valenti artefici di un tripudio che saziano l’animo ed il corpo.
Indugiando mi cullo in questa goduria.

Soltanto l’insistenza della Pina, indicandomi quelli che in piedi aspettano un posto libero, mi costringe al alzarmi.
Uno stretto abbraccio al mio pastore.
Ed eccoci all’aperto.

Nella notte serena ed in un insolito spettacolo, la volta celeste è ammantata di una miriade di stelle.

Come un miraggio, la luna è appena sopra di noi.

Nel fondovalle, una coltre silenziosa copre le terrene miserie. Sereno e rassicurato che Don Norberto non lascerà mai l’amato colle, a braccetto di Pina, mi avvio al ritorno.

Forse per l’ultimo bicchiere o per il grappino offerto da Enrico, il mio incedere ballonzola alquanto.

Per fortuna mia moglie è energica.

Rifiuto i primi inviti di amici al volante ma poi, col pericolo che cadendo la mia rotonda massa, una volta preso l’aire, violasse le disposizioni dell’antica targa in pietra sotto la chiesa di Calcinaia, col rischio di trovarmi lacero e ammaccato ai ferri delle patrie galere, di buon grado accetto il successivo invito di un sicuro rientro veicolare.

A casa ed in ciabatte, i materiali acciacchi riprendono il sopravvento.

Incurante della muliebre esortazione a non coricarmi subito, per alleviare i cronici fortori, presto scivolo nel regno di Orfeo.

Il bronzeo suono del primo doppio della chiesa di Calcinaia, echeggiando, mi sveglia.

In giardino, tra gli ulivi già frastagliati dai levantini e tiepidi raggi del sole, assaporo la salubre aria del mattino.
Meravigliato della mia insolita leggerezza, anzi con un certo appetito, avvio il giorno di festa.

Calcinaia, settembre 2009

 

 



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