Diari lastrigiani

Gino Mignolli, Lo schioppapalle 2/5


Dopo l'imbocco, lateralmente ingentilito da due bassi pilastri cilindrici in pietra serena, questa stradella sterrata ma ben battuta, delimitata da siepi di sambuco sfarzose di profumate infiorescenze a grappolo, intervallate da salici già capitozzati, proseguiva e con la prima viottola traversa sulla sinistra si arrivava diritti alla correntina.

Ben ricordo la ripugnanza per il lugubre aspetto di questi giunchi, pur conoscendone la convenienza dei contadini che ne utilizzavano gli interi penduli rami: con le punte, tenute in guazzo per mantenerne la freschezza, legavano pampinosi tralci e verdure, mentre i gambi, più legnosi, venivano intrecciati nelle giornate piovose per ceste, panieri e altre carabattole agresti.

Questo arenile, vera spiaggia dei lastrigiani, in regime di magra fronteggiava un tratto d'Arno con l'alveo assai ristretto rispetto a quello a monte e a valle, imprimendo così alla pur ridotta portata una certa velocità, inverandone il nomignolo di correntina.

L'accentuata strozzatura era conseguente alla deviazione a valle dell'originario sbocco del fronteggiante Bisenzio, grosso affluente in destra, così regimato nell'Ottocento. All'intersezione dei corsi il naturale scorrimento dell'Arno su detto lato rallentava, inducendo così la precipitazione del limo sospeso, con gli anni consolidatosi fino ad assumere l'aspetto di un compatto promontorio.

La ridotta profondità, il parallelismo delle sponde, la tanta sabbia, rendevano questo tratto d'Arno un vero bacino naturale, nell'estate preso d'assalto, specialmente nei giorni festivi, dai compaesani d'ogni età.

Pochi temerari nuotatori scendevano a valle, dove i vagoncini della vecchia draga del professore avevano già scavato nell'alveo profonde voragini che generavano nell'acqua i mulinelli, fonte di allarmi e lutti, mentre tanti lo risalivano verso la Piana del Londo, magari allenandosi per la gara di gran fondo che tradizionalmente la mattina del Fierino veniva organizzata, con partenza e arrivo di fronte all'Albereta, doppiando un barchino ancorato al centro del fiume all'altezza del cimitero di S. Colombano.

Ma la gran parte dei grandi godeva la propria distensione seduta sui massi affioranti, con le gambe immerse nell'acqua, leggendo o ammirando il bello scorcio d'Arno nella lunga prospettiva della Piana, semplice ma maestoso scenario contornato da intonse sponde, dai cui canneti svettavano imponenti gattici nitidamente riflessi sull'acqua, le cui frondose chiome di lobate foglie smeraldo e biancastre, mercé al lungo picciolo, con la puntuale brezza serale fibrillavano in caleidoscopici lucenti giochi.

Alcuno immaginava che di lì a poco tutto sarebbe stato violentato – direi profanato – per assumere un'avvilente visuale costellata di ruderi di cemento e carcasse arrugginite, con i pochi residui pioppi trasformati in ricettacolo di buste e teli di plastica, che ogni ondata di piena copiosamente avrebbe lasciato, mutandoli a poco a poco in spettrali spaventapasseri.

Anche attempate donne, arrotolate le ampie sottane sopra i ginocchi, sedevano sui massi adunate per confabulare i loro cicalecci con le gambe ad ammollo, magari continuando ad intrecciare, per miseri compensi, il rascello, una lamellata fibra orientale allora di moda che avviliva le loro esperte mani di maestre trecciaiole in tredici educate alla fine paglia locale ottenuta dal grano marzuolo, sbarbato appositamente per i famosi cappelli di paglia di Firenze, che il mercato già fiaccato dalla crisi del '29 fece scomparire definitivamente con il sopraggiungere della guerra.

Ultime staffette di una maestria artigianale tramandata da madre a figlia a partire dal Settecento e oggi tesoro museale.

I pur lunghi pomeriggi non erano bastevoli per i tanti giochi ingaggiati con i coetanei, in costante frenesia: bagnando copiosamente la sabbia si allestivano piste, con i bordi stondati e rialzati come curve paraboliche, o ristrette e angolate, gallerie, ripide salite, per sfidarci assunto il nome di un campione ciclista – tacito il mio di Bartali per l'omonimia – sospingendo con ditate le gazzozzole - così comunemente vengono chiamati i capolini dei platani - , fattane scorta alle Cascine a ridosso delle mura di ponente, prossima oasi di estiva frescura per i lastrigiani.

Dal tronco maculato di queste secolari piante inoltre si staccavano con cura le sottili desquamanti placche per ritagliarci la stelletta contraddistinguente l'idolo dei fumetti, il Piccolo sceriffo, che con Pecos Bill, l'Uomo Mascherato e Mandrake, erano le uniche predilette letture di noi ragazzi, giornaletti pur lisi, ricercata merce di scambio o ambita posta nelle partite a carte.

Scavate delle buche nella rena le rendevamo ceche coprendole con cannicci, ben mimetizzate, stazionando indifferenti in attesa che qualcuno vi sprofondasse, talora scappando scanzonati inseguiti dal malcapitato.

Ci si sfidava a cheppia con le gazzozzole avanzate, nei classici quattro movimenti : punta, colombella, passo doppio e strapporecchio.

Tanto tempo veniva dedicato per realizzare rustici giocattoli: cerbottane con le canne, fischietti con i noccioli delle albicocche, archi con i raggi delle bici, lance e ancor più per lo schioppapalle, per la difficoltà di ottenerne un valido gingillo.



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