Diari lastrigiani

Gino Mignolli, LA PIZZA DEL PRIORE, vedute e faceti ricordi di Calcinaia e dintorni


Un ciclostilato invito parrocchiale da Don Norberto esortato per un’agape … pizzaiola, in canonica dell' abbandonata Chiesina di San Romolo ed il piacevole ricordo delle briose pagine su questa collina, vergate nell’Ottocento, dal sacerdote Carlo Pini lette, direi sorseggiate, in fresca requie all’Abetone, sotto i larici ai piedi del Libro Aperto nel recente ferragosto, in quest’assolato postprandiale sabato di fine estate, mi alluzzano questo convito sul cocuzzolo della somma altura lastrigiana.

D’acchito balugina il pensiero al Granduca Leopoldo che, come annotò il frate Serafino da Signa del locale convento francescano di Monte Orlando, il 5 novembre 1772, al ritorno da un soggiorno alla Certosa di Calci, passando dalla Lastra ed incuriosito dalla famosa amenità già allora goduta di questo luogo, fermatosi sulla regia strada pisana, ai piedi del poggio, scese dal suo pennacchiuto e molleggiato tiro a quattro, per avviarsi col caval di San Francesco verso l’impegnativa escursione.

Il monaco cronista non ci ha tramandato al riguardo peculiari impressioni ma, di buon grado, rammento questo accadimento per la personale ammirazione che nutro per Leopoldo I di Lorena d'Asburgo munifico e illuminato Principe, vero artefice della dignità umana, che nettò l’amata Toscana da ogni strascico medievale e che passò alla storia come “Granduca Leopoldo”.

Con arditissime riforme nell’amministrazione della giustizia abolì, per primo in Europa, la pena di morte, la tortura e la confisca dei beni ai condannati.

Per permettere lo sviluppo dell’intera regione, dopo averla dotata di una precisa cartografia catastale, realizzò una rete stradale valida ancor oggi, asserto ne è la statale dell’Abetone.

Da vero fisiocrate requisì ai latifondisti le terre incolte assegnandole ai mezzadri, impose il riposo domenicale, riorganizzò l’ordinamento amministrativo, tra l’altro con una riforma fiscale che, scevra dell’imposizione di nuove tasse, reperì i fondi che permisero la Bonifica della Valdichiana, avviando nel contempo quella ciclopica della Maremma; promosse la cultura fondando accademie, scuole, biblioteche, istituti scientifici, musei ed innovò radicalmente le Università di Siena e Pisa.

Soppresse una miriade di compagnie e misericordie, congregazioni presenti in ogni pur piccolo centro, che con la loro feroce conflittualità soffocavano l’accrescimento di una percezione civica, presupposto necessario per lo sviluppo sociale.

Si occupò finanche delle tematiche ecclesiastiche, invadendone il campo liturgico, e da fedele seguace delle austere dottrine del vescovo Scipione dei Ricci, promosse nel famoso sinodo di Pistoia del 1786, allontanò i Gesuiti e soppresse l’Inquisizione, incurante degli strali e degli anatemi che da Roma Papa Pio VI senza tregua gli lanciava.

Questa mia enfatica ammirazione è suffragata, giacché, il Granduca, fra cotanti impegni, non lesinava piaceri concupiscenti, pur se l’intimo favore di alcova di una procace gentildonna gli costò la magnifica villa medicea Ferdinanda d’Artimino con l’intera fattoria di settecento ettari, composta da trentasette poderi, settantaquattro pezzi di bosco, cave e fornaci, come recitano le credenze popolari suffragate peraltro da lacunosi rogiti.

Tale profluvio su Leopoldo I scaturisce soprattutto per quell’infima deferenza verso un Grande ingiustamente disonorato dai novelli fiorentini dacché l’unica sua testimonianza lapidea risale addirittura al dopoguerra con l’intestazione di un’anonima piazza, di fatto una grande rotatoria, nel circondario, tale era, all’epoca, Rifredi.

Oggi patisce l’ultima offesa sotto il portico dell’antico ospedale per malati mentali di San Bonifacio in via San Gallo, irriconoscibile per il guano dei piccioni sulla sua sagoma marmorea, che, i di Lui contemporanei, posero in encomiabile memoria di tale avveniristico nosocomio per la cui conduzione il Granduca chiamò i più famosi medici psichiatrici.

E poco mi rincuora saperlo in eccelsa compagnia di tanti altri illustri figli che da sempre l’ingrata Firenze ha dimenticato.

Per rimanere in questo orticello che, fin troppo immodestamente, sono soltanto in grado di vangare, ricordo, tra i recenti, Giuseppe Prezzolini, Roberto Ridolfi e Oriana Fallaci.

Oggi le chiarine squillano per pedatori e un contradaiolo valenti nei verdi rettangoli, affronto per il Marchese Ridolfi che negli anni trenta, intuendo la valentia dell’allora giovane e sconosciuto architetto Pier Luigi Nervi, profondendo tutto il suo animo e ... corpo, innalzò uno stadio, splendido gioiello, razionale nelle forme pur con ardite strutture in Cemento Armato, dotandolo di una pista d’atletica dalla sagoma perfetta e rinomata nel mondo; un leggiadro impianto oggi, ahimè, scempiato, una vera perla, insieme alla stazione ferroviaria del Michelucci e la Scuola di Guerra Aerea alle Cascine del Fagnoni, dell’ultimo periodo aureo dell’architettura fiorentina.

Rimbomba ancora in città l’eco degli ottoni, per il più recente abbellimento artistico invero un pretenzioso vespasiano che sfregia la stazione ferroviaria di Santa Maria Novella, eretto a lustro di un iridato torneo calcistico.

Mi accorgo che sto divagando, troppo!
L’antica mia precettrice avrebbe già vergato con la matita blu un Fuori Tema, qual giudizio conciso e indubitabile per un grande quattro sottolineato!

Oggi mi vien semplicemente da dire che, quantomeno, sono fuoristrada e allora bando alle ciance, se voglio raggiungere San Romolo prima di buio è ben che mi incammini.

Lasciata alle spalle l’erta iniziale e l’amara vista della rinascimentale Villa Pinucci imprigionata da arrugginite impalcature, con in tasca una copia anastatica del compendio Storia della Lastra a Signa e Signa, del ricordato Pini, scendo con Pina, mia moglie, nella familiare via di Calcinaia, dirigendoci a monte.

Breve il cammino di concerto per il mio passo lemme lemme di contro al suo agile e lesto da tonica camminatrice; e così, dopo poche curve, l’avrei rivista, ….prima o poi, soltanto alla meta.

Nel lento incedere focalizzo le tante, sane e già grosse drupe che incurvano sulla strada i frondosi tralci degli ulivi, ributti rigogliosi della falcidia scaturita dalla ricordevole gelata del 1985.

Alla ricerca di un po’ d’ombra rasento i muraglioni in pietra a retta dei campi apprezzandone l’accurata orditura, al meriggio ingentiliti dalle verdi commettiture per i fitti licheni.

Queste antiche strutture, pur spanciate e in evidente disassamento, nel loro apparente precario equilibrio, contrastano ancora validamente l’appiattimento di questo poggio nel suo movimento lesto, ben s’intende, nei cosmici parametri come, pur da semplice mezzamestola, avevo appurato.

Mi soffermo al casotto dell’acquedotto che incontro sulla destra e, dopo una sessantina d’anni, riappoggio l’orecchio sulla ferrea porta.

E’ scomparso il distinto gorgoglio della sorgente delle Fate, come un tempo avevo appreso dai miei giovani genitori.

Il ronzio di una pompa inquina il fiabesco ricordo.

Alzando lo sguardo sull’opposto lato spunta il campanile della chiesa di Calcinaia, recentemente ben restaurato dalle offese di un fulmine.

Svetta dal magno caseggiato della fattoria Mealli, incavato nel poggio, possente bastione del sovrastante complesso religioso.

Il primo affanno, pur nell’assolata sosta, mi induce alla lettura di una targa lapidea, alquanto erosa, mimetizzata nello spronato contrafforte del sagrato nell’occaso versante. Mediana all’arcata a tutto sesto, il curioso testo così recita:

……… AD 8 GENNAIO 1739 A B IN……………….…...
……… SPLI SS: OTTO PROIBISCONO AD…….…..…
QUALUNQUE PERSONA IL GIOC ARE ……………...
RUZZOLA E SIMILI GIOCHI PER LA STRA…….…….
CHE CONDUCE DALLA CHIESA PARROCCHIAL...
S. STEFANO A CALCINAIA ALLA VILLA DEI S…..….
NARDI SOTTO PENA DELLA CATTURA CARC…..…
RE ET ARBITRIO DEL MAGISTRATO LORO ET.……


Sorridendo mi ritrovo di slancio sotto l’ arioso portico della Chiesa.

Scampoli di sbiaditi affreschi richiamano l’originaria bellezza di un tempo.

Seduto sul basso parapetto mi rinfresco rimirando il dirimpettaio Monte Orlando baciato dal sole, nella quiete di tanti nitidi cipressi, l’isolato convento e la settecentesca chiesa spiccano armoniosi.

A manca l’imbocco della valle di Rimaggio è intonso nel suo verde boschivo.

Nel lato opposto il dolce declivio della collina di Santa Lucia, patrona con San Michele del ricordato plesso conventuale, si attesta alla maestosa chiesa di San Martino a Gangalandi.

L’intera poggiata si presenta gradevole, pur le tante edificazioni dei secoli scorsi, oltraggio che, purtroppo, abbassando lo sguardo al piede si palesa col nuovo nastro ferroviario di un insopportabile color celeste che sembra scantonare il Cimitero Monumentale della Misericordia sotto l’imponente torre campanaria attigua al corpo absidale della chiesa di San Martino, ultimo certo gioiello del maestro Leon Battista Alberti.
Voltandomi a borea di là d’Arno, la vista è ancor più avvilente.

Smisurati alveari di cemento, spauracchi del Castel di Signa, mi istigano a aprire il mio breviario e rivivere le emozioni del Pini.



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